A 35 anni dalla tragedia del Ballarin, il ricordo di chi c'era
Maria Teresa Napoleoni e Carla Bisirri. Sono le giovani vittime di una delle giornate più tristi e avvilenti del calcio italiano.Sono le vittime del “rogo dello stadio Ballarin”, il triste epitaffio della morte prematura, consumatosi a San Benedetto del Tronto il 7 giugno 1981, in occasione di Sambenedettese-Matera, gara che consentì ai marchigiani di conquistare l’accesso in Serie B.
Esattamente 35 anni fa. Una festa tramutata in tragedia, un popolo allegro che in una frazione di tempo si è trovato con le mani tra i capelli e i volti sconvolti dalle lacrime e dalla paura. Fiamme. Alimentate dal vento. Giovani vite infrante, e le bandiere rossoblu che si ammainano.
Titti è uno storico tifoso presente in quella triste giornata: “Venivamo da un periodo molto pesante a livello politico, per la città, che negli anni settanta era stata fortemente segnata dalle lotte di classe, come dal terrorismo – esordisce – tutti noi ragazzi eravamo figli di quella rabbia.
La festa per la Samb era un modo di identificarci come piccoli guerrieri, che avevano superato con successo tutte queste vicissitudini. Già un mese prima della partita col Matera – spiega – avevamo cominciato a preparare i festeggiamenti.
Ricordo che quel giorno c’erano un centinaio di sacchi dell’immondizia, contenenti le striscioline di carta per la coreografia, messi in ogni angolo della curva. La giornata era caldissima, c’era un forte vento di scirocco (lu arrbì, come lo chiamiamo noi).
L’afa avvolgeva la città già alle 11 di mattina, quando entrammo allo stadio per preparare il tutto. Volevamo fare una grande cosa, basti pensare che la mole di carta portata all’interno dello stadio arrivava sino alle ginocchia. Circa 7 quintali”
L’ingresso delle squadre e la tragedia. “Ci apprestavamo a festeggiare la squadra con la carta e i fumogeni, nessuno pensava alle scintille. Vedevamo delle piccole fiammette qua e là (forse procurate da una sigaretta, forse da un fumogeno), ma prendemmo la cosa sottogamba – racconta – cercando semplicemente di spegnerle con i piedi. Invece, anche a causa di alcune folate di scirocco, in quindici secondi l’allegria si è tramutata in caos. Sì è creata una sorta di piccola tromba d’aria, con le carte infiammate che spingevano verso l’altro. La gente ha cominciato ad ammassarsi, al centro e nella parte inferiore. È la che le due ragazze sono rimaste intrappolate, senza via di fuga.
Travolte da una seconda folata di fuoco. Come se gettassimo dell’alcol in un camino. Le fiamme superavano anche i dieci metri. Sembrava che Dio avesse preso a schiaffi il vento per indirizzarlo là. La gente spingeva ovunque -continua – non si trovavano le chiavi del cancello per entrare in campo e, inoltre, i manicotti per i pompieri, posti a pochi metri dalla curva, erano privi di acqua.
Ci sono stati dei veri e propri eroi, che mettendo a repentaglio la propria vita hanno salvato vite umane, scaraventando ragazzini inermi da una parte all’altra della rete, come fossero sacchi di patate. È stato come una attentato, nessuno si aspettava una simile tragedia in quel contesto. Eppure oggi c’è ancora chi ne porta i segni. Ricordo che il resto del pubblico, ma anche i carabinieri, erano a dir poco attoniti”.
Un evento che creò, per qualche tempo, una frattura tra il tifo organizzato rossoblu e il resto dei sostenitori. “I primi tempi fummo messi sotto torchio dalle autorità e dall’opinione pubblica – afferma – ci sentivamo disprezzati, la gente ci incolpava dell’accaduto e non è stato facile ricucire questa ferita. È stato il senso di appartenenza a far crescere l’Onda d’Urto (storico gruppo guida del tifo rossoblu) e riportarla vicino alla gente. Inoltre, in quegli anni, c’era un grave problema di droga in città, così noi giovani cercavamo di rallegrarci con la Samb, anche se nel primo periodo che seguì il rogo tutto ciò che riguardava il calcio a San Benedetto era visto quasi in modo lugubre, esattamente l’opposto di quello che noi provavamo per la squadra. Io voglio credere – sottolinea – che tragedie come questa o come quelle successe in mare con l’affondamento del Rodi e del Pinguino, abbiamo unito ancor più il popolo sambenedettese”.
E il Ballarin di oggi? “Sono sorte diverse associazioni e il nostro corteo nella partita della promozione in Lega Pro contro la Jesina parla chiaro: la storia non si demolisce. Ci sono persone – dice – pronte a difendere quello stadio con le unghie e con i denti, soprattutto chi è nato con quella tragedia. Vorremmo venisse riqualificato, soprattutto perché i ragazzi capiscano cosa sono le radici del popolo rossoblu. Lì c’erano i nostro padri e i nostri nonni”.
Eppure la partita si giocò ugualmente. A quel tempo Remo Croci, oggi giornalista Mediaset ma anche vicepresidente della Fondazione Fratelli Ballarin, era cronista ufficiale della Samb per Radio Ponte Marconi: “Non si ebbe subito la percezione di quanto stava accadendo – racconta – anzi ricordo che all’intervallo lo speaker disse che non c’erano stati feriti e addirittura a fine partita ci furono dei festeggiamenti. Durante la partita sentivamo il viavai delle ambulanze, ma non era chiaro il quadro della situazione. Poi la sera arrivarono le tragiche notizie. Ricordo, alla discesa della squadra in campo, Walter Zenga che costantemente guardava verso la Curva Sud. Subito dopo anche Cavazzini fece la stessa cosa e, a quel punto, l’intera tribuna che allora si chiamava “Prato”. In curva c’erano due spazi liberi e la gente che si ammassava dove non divampavano focolai. Il giocatore Sansone prese un estintore per domare le fiamme, ma il getto d’acqua era troppo debole. Di recente – svela – ho parlato con Tubertini, l’arbitro di quella partita, e mi ha confermato che nessuno pensava la situazione fosse così drammatica. Una piccola curiosità: quel giorno, aggrappato alle grate, ricordo Patrizio Peci, ex esponente delle Brigate Rosse, il cui fratello, Roberto, verrà rapito esattamente tre giorni dopo (e ucciso il 2 luglio successivo n.d.r.)”.
Paolo, invece, altro tifoso presente quel giorno, ricorda: “Io ebbi la fortuna di spostarmi verso destra – afferma – fu fortuna, perché chi scese verso il basso rimase ustionato. Le persone si toglievano la carta di dosso, gettandola in basso e alimentando involontariamente l’incendio. Molti saltarono direttamente in campo. Per quanto erano divenute roventi le gradinate, mi si fusero le scarpe da tennis e sentivo i miei piedi bruciare. Ho un flash di quel giorno: una ragazza con i capelli lunghi legati che, nel tentativo di scappare, finì in mezzo al fuoco. I capelli le si sciolsero letteralmente. Non ho mai saputo se si trattasse di una delle due vittime. Si svolse tutto velocemente, 10-15 minuti di inferno”.
Sulla panchina della Samb sedeva Nedo Sonetti, ultimo allenatore a condurre i marchigiani in Serie B: “Quando succedono questo genere di cose, il ricordo resta incancellabile – sostiene – ogni attimo di una tragedia che si consuma in un campo di calcio è indelebile. Abbiamo visto le fiamme ma non sapevamo l’entità del fatto. Un dispiacere che però non macchia il bellissimo ricordo che ho di San Benedetto”. Chi oggi allena, ma allora calpestava il manto verde nel ruolo di calciatore, è Luigi Cagni, che racconta: “Se ci fossimo accorti di quello che stava accadendo, non avremmo giocato. La sera – continua – abbiamo visto le immagini da brividi. Quando siamo entrati c’era la classica nebbiolina dei fumogeni, c’era musica, dei bambini con noi e l’arbitro ha fatto giocare regolarmente”.
Una targa al nuovo Riviera delle Palme ricorda Maria Teresa e Carla. La vede chiunque vada allo stadio. Ogni 7 giugno le rovine del Ballarin riprendono forma, per far sì che nessuno dimentichi la tragedia. Il mare è là, a pochi metri. Ed è custode di una popolazione e di una storia fatta di novelle che si perdono in mare e tradizioni tramandate anche attraverso il calcio. Perché le fiamme non hanno bruciato il senso d’appartenenza dei sambenedettesi. Né cancelleranno il ricordo di quella tragica domenica di 35 anni fa.
Simone Meloni